Sguardo sui 30 anni della Casa delle donne.
Spunti di una giovane nata dopo di lei.

Nel 1990 non ero ancora nata. Ora ho 26 anni, l’età che alcune delle prime socie avevano quando fondarono la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna. Sono entrata in questo mondo come volontaria del servizio civile, come giovane donna femminista in cerca di uno spazio nel quale investire il tempo delle mie giornate per contribuire a un cambiamento reale della società e delle relazioni, in uno spazio con una spinta costante al cambiamento e una lotta intrinseca in ogni azione ed interazione, in un’ottica di empowerment e autodeterminazione delle donne.

Sono consapevole della mia poca esperienza alla Casa delle donne, ma già la sento come un luogo fatto di donne piene di vita, energia e saggezza: grazie al lavoro fianco a fianco alle operatrici, alle volontarie ed ad alcune delle socie fondatrici e attiviste del progetto. Tra loro infatti ci sono anche le donne che alla mia età fondarono la Casa e che tutt’oggi si mettono in gioco in un confronto quotidiano, si interrogano e si migliorano.

Questo dunque è il mio sguardo sulla Casa delle donne, nato dall’avere frequentato i corsi che ha organizzato la Casa, dallo studio, dalla lettura e dai mei confronti e scambi quotidiani con le fondatrici e socie.

Parto dagli inizi, con un po’ di storia. Nel 1985 accadono a Bologna due casi di stupro su tre ragazze minorenni. In risposta ad essi il Centro di documentazione delle donne, che esisteva già da alcuni anni, diventa luogo di assemblee sulla violenza contro le donne. Il discorso presto si allarga alla violenza domestica, tanto diffusa quanto nascosta nella sfera privata. Un gruppo di femministe, convinte che ogni azione politica debba avere luoghi e tempi, elabora e presenta un progetto finalizzato all’apertura di un Centro antiviolenza da proporre alle istituzioni. Da quel primo progetto nasce, nel 1990, la Casa delle donne, una struttura cittadina in grado di accogliere e aiutare concretamente le donne che subiscono violenza, i cui presupposti fondanti – che partono da un’ottica femminista – erano, e sono tutt’oggi: da una parte dare aiuto concreto a donne che subiscono violenza e ai loro figli/e, dall’altra, con forte intento politico, nominare la violenza di genere come parte integrante del sistema patriarcale, darne visibilità politica e denunciare come costituisca una vera pandemia socioculturale di livello mondiale.

All’epoca – dell’apertura della Casa delle donne – in Italia il tema della violenza domestica era completamente nascosto, il dibattito era ritenuto superfluo e la questione era considerata un fatto privato da risolvere all’interno della famiglia. Ma, a sorpresa, già nel primo anno di attività, 350 donne contattano la Casa delle donne di Bologna (oggi sono 700 all’anno!). Non trovano soltanto un telefono di accoglienza, ma la possibilità di intraprendere un percorso, di media e lunga durata, un supporto legale, un sostegno psicologico, nella ricerca lavoro, la possibilità di essere ospitate in case rifugio a indirizzo segreto case di ospitalità, un progetto specifico per le donne vittime di tratta e sfruttamento. A questi servizi si unisce l’attività fondamentale di prevenzione, formazione e sensibilizzazione. La Casa delle donne diventa uno spazio di donne, autonomo e autogestito, con la convinzione che l’efficacia dell’aiuto passi attraverso la relazione tra donne. La Casa rivendica e afferma la necessità di creare istituzioni femminili, di segnare politicamente le istituzioni con una presenza di genere.

Nella mia pur breve esperienza mi sono già resa conto che alla Casa delle donne la cura è un atto politico e sociale condiviso, sia verso le donne e i loro figli/e che verso sé stesse e le colleghe. Il lavoro delle operatrici e delle volontarie si fonda sulla sorellanza, sul riconoscere le persone – la donna e i minori – davanti a sé, sul ridare loro voce, ascoltandole. Le operatrici lavorano concretamente aiutando le donne a respirare e a (ri)prendere in mano la vita dopo il trauma della violenza, rispettando i tempi di ognuna e aiutandole a superare il ruolo di vittima: offrendo strumenti, informazioni, competenze, risorse per accompagnarle nel percorso di fuoriuscita. Questo è possibile “partendo da sé”, perché le donne che le operatrici incontrano sono donne comuni, come potremmo essere anche noi. L’approccio metodologico usato nell’accoglienza prevede di stare “Dieci passi indietro, in punta di piedi”: le chiavi sono l’ascolto empatico, l’accoglienza non giudicante, valorizzare e sostenere, mai svilire, ricordare sempre lo sforzo e la fatica della donna nell’andarsene di casa e rompere una relazione, avendo davanti un futuro incerto.

Ai servizi diretti alle donne la Casa delle donne affianca un impegno di informazione, prevenzione, formazione, documentazione e sensibilizzazione sul tema della violenza di genere costante, frutto di una elaborazione ormai trentennale.

Durante questo mio periodo di collaborazione ho acquisito consapevolezza di quanto il lavoro svolto dalla Casa delle donne e dalla rete dei Centri antiviolenza nella sua interezza abbia modificato la società. E’ grazie a questo lavoro che oggi è possibile nominare la violenza di genere e riconoscerla in modo molto più evidente rispetto a 30 anni fa, sebbene la sua diffusione sia rimasta endemica e “democratica” e agisca tutt’oggi come fenomeno strutturale e universale.

Rispetto gli anni ‘80, oggi la violenza contro le donne è una tematica indagata e conosciuta anche dall’opinione pubblica più ampia. Le donne sono cambiate, chiedono aiuto molto prima, i servizi offerti dalla Casa delle donne, ma anche dalla rete cittadina, sono molto più complessi e articolati, il sistema giudiziario è più vicino ai bisogni delle donne: se nel 1990 era presente una sola casa rifugio, ora ci sono 16 case di ospitalità, se le operatrici erano 5, ora sono 25, se le attiviste erano 10 ora sono più di 50.

Nonostante gli obiettivi ottenuti grazie alle lotte di questi anni, la strada per il cambiamento è ancora lunga. Sebbene, per esempio, l’Italia abbia ratificato la Convenzione di Istanbul, la sua piena applicazione è ben lontana, come dimostra la relazione Grevio appena elaborata dai Centri antiviolenza dell’associazione DiRe. Ancora troppo spesso i Centri antiviolenza sono dimenticati dalle istituzioni, il problema riguardante i fondi per finanziarli rimane rilevante, la formazione di chi opera nella rete antiviolenza è faticosa e ancora sporadica.

Uno sguardo femminista intersezionale, inoltre, rileva come molto, moltissimo lavoro debba ancora essere pensato, creato, discusso e concretizzato su tematiche quali violenza alle donne e disabilità, soggettività LGBTQI+, donne straniere e migranti, donne nella loro pluralità. La comunicazione, il linguaggio, alcuni valori sociali e culturali, la formazione nelle scuole, i mass media, tante sono le finestre ancora da aprire. Servono quindi risposte da parte della rete di servizi e, al contempo una progettualità istituzionale e governativa consapevole della natura strutturale delle violenze, in grado di fornire risposte organiche, orientate secondo una prospettiva di genere.  Al centro è necessario collocare il sapere prodotto dalle donne all’interno degli spazi femministi negli ultimi 30 anni: la meta è supportare tutte le donne nel loro diritto all’autodeterminazione.

Giulia Bertomoro