Nuove grammatiche dell’amore, di Catherine Dunne

Discorso di Catherine Dunne alla Lectio Magistralis, sabato 14 novembre 2015
Aula Magna di Santa Cristina, Bologna
Una nuova grammatica amorosa. I personaggi femminili di Catherine Dunne
Festival La violenza illustrata

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Nuove grammatiche dell’amore
di Catherine Dunne

Sono molto grata alla Casa delle donne per non subire violenza per questo invito, e sono onorata di celebrare con voi il 10 ° anniversario del festival, aiutando nel mio piccolo a continuare il vostro essenziale lavoro di sensibilizzazione sul complesso tema della violenza di genere.

Da dove cominciare?

Quando ho iniziato a preparare questo intervento, mi sono sentita sopraffatta. Ho letto centinaia di articoli sul tema delle relazioni violente. Ho scritto migliaia di parole sul tema delle relazioni violente. Ho seguito decine di ricerche accademiche. Ho parlato con gli assistenti sociali. Ho cercato di capire che cosa spinga un rapporto tra un uomo e una donna al di là dei confini della sicurezza e del rispetto, in quello spazio caotico e liminale della violenza e del controllo. Potrei bombardarvi di statistiche. Potrei parlarvi delle esperienze nazionali ed internazionali che chi fa ricerca ha documentato nel corso degli anni. E alla fine di tutto questo, potremmo non saperne molto di più – potremmo semplicemente accettare il fatto che esistano queste relazioni violente, senza neanche cominciare a capire il perché esitano. Quel che è inquietante dell’esistenza di tanti lavori su un tema così oscuro, è riconoscere come l’intera cultura della violenza contro le donne sia radicata ogni società.

Diverse settimane fa, ho cominciato a pensare al titolo del discorso che sono stata invitata a fare oggi. Nella loro proposta, le organizzatrici mi avevano suggerito di esplorare il concetto delle “nuove grammatiche dell’amore” tra uomini e donne, e ho sentito che si trattava di una frase molto appropriata. Ci aiuta ad allontanarci da una comprensione statistica di ciò che accade e a entrare nel regno filosofico infinitamente più complesso del perché queste cose accadono. Io credo che la narrazione, tra le molte altre forze – culturali, legali, educative – abbia un ruolo da svolgere anche nello sviluppo della nostra comprensione del “perché’, e su questo tornerò in seguito.

Per prima cosa però, cominciamo dalla grammatica. La grammatica è, dopo tutto, quell’insieme di regole strutturali che disciplinano la composizione di espressioni, frasi e parole in qualsiasi linguaggio naturale. Le regole governano il comportamento della grammatica. Quando queste regole sono infrante, la confusione regna sovrana: i presupposti vengono a mancare e la comunicazione porta a scarsi risultati. La lingua offusca là dove dovrebbe illuminare e il significato si sfalda. Se abbandoniamo le regole sensate della grammatica, possiamo anche parlare la stessa lingua, ma non saremo più in grado di capirci, questo è ovvio. Tuttavia, se adottiamo un insieme condiviso di regole grammaticali e ci adeguiamo ad esse, abbiamo almeno la possibilità di comprendere le parole dell’altro, se non necessariamente tutti i livelli di significato e nemmeno la motivazione di chi parla.

Guardare la parola “amore” è , però, decisamente più problematico. La parola “amore” è oggi usata per coprire una tale moltitudine di sentimenti che ci sembra a volte di perdere il suo valore, il suo potere di evocare emozioni, scelte, comportamenti positivi. “Amiamo” un film o un romanzo nello stesso modo in cui noi “amiamo” i nostri figli? Quando diciamo “ti amo” vogliamo dire “farò sempre il possibile per trattarti con dignità e rispetto” o “voglio possederti”? Il desiderio di possedere ed essere posseduti è una caratteristica di quelle relazioni erotiche appassionate, dove gli amanti voglio dissolvere i confini che li dividono, per arrivare quasi ad abitare l’uno nell’altro – basta solo guardare alle poesie d’amore più potenti per vedere questo sentimento esplorato ed espresso in maniera più bella e più precisa di quanto sia in grado di fare io qui. Ma il mio punto è che i sentimenti che accompagnano l’amore tra un uomo e una donna hanno molte sfaccettature, e una volta che gli amanti parlano lo stesso linguaggio, un linguaggio di uguaglianza e di stima e affetto, la loro grammatica personale, il loro lessico privato, saranno sempre all’altezza.

Credo che la maggior parte della buona narrativa si confronti con questi temi, rappresentando le relazioni tra uomini e donne con tutta la loro complessità, la loro ricchezza, e i loro pericoli.

Torniamo per un attimo alla nozione di grammatica e alle sue regole condivise . A volte, nel mondo della letteratura, infrangere le regole può avere effetti sorprendenti e positivi. Ricordate gli esperimenti linguistici di Joyce in Finnegans Wake’ o, più recentemente, di Eimear MacBride in A Girl is a Half-Formed Thing – queste opere d’arte creano una nuova grammatica, uno sguardo innovativo su forme antiche ed esaurite, e il risultato è un linguaggio nuovo di zecca e stimolante. Ma prima che si possano infrangere le regole della grammatica, bisogna conoscerle. Dobbiamo capire come funzionano prima di poterle mettere da parte e inventarne di nuove. E questo mi sembra essere la metafora perfetta per le nostre osservazioni qui oggi. Poiché le regole – dette e non dette – governano anche il comportamento sociale e personale degli uomini e delle donne. Prima di cambiare queste regole – e dobbiamo cercare di cambiarle – abbiamo bisogno di capire come funzionano.

A volte, le regole che sono alla base del nostro comportamento sono strumenti diretti e scontati che non ci lasciano alcun dubbio circa le loro finalità. Bisogna pagare le tasse; non si deve uccidere, non si deve rubare. Sotto a queste regole si cela un presupposto più torbido: “se si viene scoperti….”. Altre volte, più subdolamente, ci sono regole che sono molto più sottili, meno evidenti, ma il loro impatto non è meno profondo. In realtà, probabilmente, il loro impatto è ancora più profondo, proprio a causa della loro invisibilità. Pensate, per un momento, a ciò che chiamiamo “il soffitto di cristallo” – quella barriera invisibile che le donne incontrano nel mondo del lavoro, che dice “fin qui ma non oltre”. Questo è il significato di “soffitto di cristallo” – che le donne raramente saranno promosse al di là di un certo livello; conosciamo tutti una donna che è l’eccezione alla regola, il che conferma il mio punto – ma non siamo del tutto sicuri di come funzioni esattamente la barriera. Si tratta di quello che mi piace chiamare le “regole ombra”, quelle norme nascoste che impediscono l’uguaglianza tra i sessi. Spesso, queste regole informano le nostre ipotesi e le nostre convinzioni, così come i nostri comportamenti – e la maggior parte del tempo, non ci rendiamo neanche conto che stiamo vi stiamo obbedendo.

Ecco dove voglio cominciare oggi. Voglio che guardiamo ai presupposti, ai consensi, ai silenzi, al senso maschile di superiorità che spesso è l’impalcatura che sostiene l’atteggiamento verso le donne nella nostra società di oggi. E quando dico “nostra” società, che cosa voglio dire con questo? Intendo solo la società occidentale? Che dire dell’India? O del Pakistan? O dell’Afghanistan? O dell’Egitto, dove l’aggressione e gli stupri ai danni delle donne che protestavano in piazza Tahrir sono stati un metodo efficace per metterle a tacere, per togliere loro il senso di libertà di cui avevano precedentemente goduto. Potremmo parlare di stupro come arma di guerra. Oppure dello stupro come espressione del senso di diritto acquisito che alcuni uomini pretenderebbero di avere – uomini come il predatore Dominique Strauss-Khan, o come Silvio Berlusconi. Alla base di tutti questi abusi di potere è la nozione non dichiarata, ma profondamente radicata, che dice: “io ho il potere di controllarti”. E da quel senso di potere emerge l’inevitabile conclusione: ho il potere, e quindi ho il diritto.

È qui che ha inizio ogni violenza. La violenza può essere espressa in modi diversi, ma fondamentalmente, al suo cuore, c’è la convinzione di un individuo che si arroga il diritto e la presunzione di controllare la vita di un altro. Questa convinzione si esprime nel modo in cui le nostre società sono organizzate ancora oggi: il potere, l’autorità, l’influenza, in tutte le società appartengono ancora prevalentemente agli uomini.

Quello che ora credo, a malincuore, è che una visione simile delle donne esista in ogni nazione, in tutto il mondo. Le differenze tra noi tutte sono di grado piuttosto che di sostanza. Lo stupro e l’omicidio e la violenza contro le donne sono parte dello stesso continuum che inizia con la mancanza di parità, continua con le molestie e le intimidazioni, e termina nel più grave abuso di potere. E includo nelle molestie ciò che accade nei luoghi di lavoro e online.

Proprio di recente, un rapporto sui luoghi di lavoro in Irlanda, ha evidenziato il fatto che ancora oggi – ancora oggi! – le donne sono pagate meno degli uomini per lavori comparabili, o per un lavoro di pari valore. La relazione conclude che le donne ricevono ancora l’84% di ciò che gli uomini percepiscono regolarmente – il che ammonta a ben sette settimane di lavoro non retribuito per donna ogni anno. È una battaglia che forse pensavamo di aver vinto – e invece resta un altro presupposto che deve essere messo in discussione. In altri paesi europei, il divario retributivo è ancora più grande – con buona pace per la nostra fede nella correttezza e uguaglianza del ventunesimo secolo.

Ricordo di aver fatto qualche ricerca in questo settore della disuguaglianza negli anni ‘80, e anche se il divario di retribuzione non è più ampio come allora, il fatto che continui a esistere è inaccettabile. Tra gli altri settori in cui le cose non sono molto cambiate c’è quello del ‘lavoro d’amore’ – ovvero il lavoro di cura e cura dei figli, e l’assunzione di una quantità sproporzionata di responsabilità nel lavoro domestico: tutto ciò rimane ancora saldamente un onere delle donne. Questa è un’altra di quelle “regole ombra” – qualcosa di non necessariamente espresso, né di regolato a livello legislativo – se lo fosse, insieme potremmo trovare la voce per combatterlo – eppure qualcosa che è ancora saldamente inserito nella nostra cultura e che è estremamente difficile contestare.

E dagli anni ‘80, vi è un altro spazio per intimidazioni e molestie con cui fare i conti: esiste grazie a Internet. In molti sensi, i progressi tecnologici hanno arricchito la nostra vita. Ma, per molti aspetti, hanno reso gli individui vulnerabili all’abuso – un abuso che comprende lo stalking, il cyber-bullismo e l’intimidazione. Ho visto troppi esempi di donne che prendono parola contro le ingiustizie, in particolare su Twitter, diventare vittime di ogni sorta di vili minacce, non appena alzano la voce uscendo allo scoperto.

Verso la fine del 2011, ho letto un articolo di una giornalista britannica, Laurie Penny, che scriveva:

‘Un’opinione, a quanto pare, è la gonna corta di Internet. Averne una e mostrarla è un po’ come sollecitare una massa amorfa di detrattori da tastiera, quasi interamente maschi, a dirti quanto sarebbero felici di stuprarti, ucciderti, e urinarti adosso”.

In quale universo è accettabile parlare con un altro essere umano in questo modo? Mary Beard, la meravigliosa studiosa classica britannica, è stata vittima di un simile abuso quando ha avuto il coraggio di esprimere un parere che andava contro le opinioni di un pubblico maschile male informato, prevenuto e privilegiato. Laurie Penny ha deciso di rendere pubbliche le minacce che aveva ricevuto, e la risposta ha dimostrato come la sua esperienza fosse tutt’altro che unica – decine di donne hanno cominciato a condividere le proprie storie di molestie, intimidazione e stalking. Questo comportamento su Twitter è un’altra indicazione della censura della voce delle donne, così pervasiva che spesso smettiamo di notarla. In modo particolare, la decisione di Penny di mettere in luce quegli eventi ci ha mostrato ancora una volta atteggiamenti che rimangono spesso nascosti. Così, le cose orribili che sono stati scritte a e su alcune donne hanno avuto un effetto inconscio, e senza dubbio non intenzionale.

Il punto relativo a esperienze come queste è che non possiamo separare questo tipo di comportamento da tutti gli altri comportamenti abusivi, dai pregiudizi e dalle censure che fanno parte del continuum che porta alla violenza contro le donne, sia per le strade e che nelle case. Il mio viaggio per comprendere la natura di questo continuum – ed è stato un viaggio, dalla mia precedente comprensione di giovane intellettuale delle diseguaglianze nella società, alla più profonda comprensione emotiva dei miei anni successivi – è stato difficile e doloroso. Ne ho registrato una parte qui in una serie di impressioni, ed è quelle impressioni che voglio condividere con voi oggi.

Nel corso degli anni, mi sono imbattuta in molte osservazioni sulle regole che governano i rapporti tra uomini e donne, molte delle quali provenienti da scrittori e scrittrici. Ho sempre ammirato il lavoro di Margaret Atwood, e devo ammettere che sono rimasta sorpresa quando mi sono imbattuta nella sua affermazione: “gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro; le donne hanno paura che gli uomini le uccidano”. Questa osservazione sorprendente è emersa da un’indagine di Atwood che ha chiesto a uomini e donne, in modo casuale, cosa temessero di più – una domanda che è stata poi la base per programma TV sulla violenza di genere in onda circa dieci anni fa negli Stati Uniti. Gli uomini temevano l’umiliazione per mano delle donne. O temevano il fallimento, o di essere inadeguati. Le donne avevano paura dello stupro, della violenza sessuale, dell’omicidio per mano di uomini.

Per mano di alcuni uomini, deve essere sottolineato: non tutti gli uomini, alcuni uomini. Vi è anche, naturalmente, la violenza perpetrata dagli uomini contro gli uomini: lo vediamo nelle nostre strade ogni giorno. E c’è anche la violenza perpetrata da donne contro gli uomini: è altrettanto inaccettabile. Ma evidenze schiaccianti confermano la straordinaria prevalenza della violenza contro le donne per mano di uomini, sia “violenza da sconosciuti”, che violenza nelle case, nella apparente sicurezza dei propri rapporti privati.

Recentemente, mi sono imbattuta nel lavoro della scrittrice americana, Rebecca Solnit, in cui si tenta di disfare i problemi che una cultura patriarcale nemmeno riconosce come tali – siamo tornati di nuovo ai presupposti e ai silenzi di cui parlavo prima. Vi consiglio vivamente il suo libro, intitolato: “Men Explain Things to Me”. Una delle questioni che Solnit esplora nei suoi saggi è silenzio, quel particolare tipo di silenzio – il silenzio delle voci femminili. Questo è stato uno dei miei principali interessi quando scrivevo “Un terribile amore”. Il silenzio intorno al diritto delle donne di essere ascoltate non è un fenomeno moderno: anzi, fu proprio l’intimazione di Telemaco a sua madre Penelope nell’Odissea – “agli uomini tocca parlare” – che ha scosso per prima la mia fantasia di scrittrice, molti anni fa. Per definizione, quindi, anche essere ascoltati è stato appannaggio degli uomini e la tradizione è, per molti versi, continuata attraverso i secoli dal mondo antico a noi oggi. Nei classici, raramente sentiamo le voci delle donne, ed è il motivo per cui nel mio romanzo cerco di rendere forti e chiare le voci dei due personaggi femminili, nel loro tentativo di trovare una strada nelle acque spesso torbide di un mondo di uomini.

Avevo promesso di non bombardarvi con le statistiche, ma ce n’è una sulla quale mi soffermo sempre. È il dato – e ricordate che ci sono pochissime differenze tra gli Stati Uniti, l’Irlanda, la Gran Bretagna o anche, se è per questo, l’Italia – in base al quale una donna su cinque sarà violentata nella sua vita, o sarà vittima di violenza di genere. Questa è la statistica che ha di recente portato mia nuora a dire a mio figlio: “Questo significa che qualcuna tra le donne nella nostra cerchia di amici è già in una relazione tossica, o lo sarà a un certo punto in futuro”. È stata un’osservazione che ha colpito tutti noi con forza – e mi ha ricordato una delle mie amiche, che si nascondeva nella sua camera da letto con tutte le luci al piano terra spente, in una serata in cui sarei dovuta passare a casa sua.

Ero perplessa: potevo vedere la sua silhouette contro la finestra della camera da letto guardarmi mentre mi allontano. Avevo aspettato per diversi minuti dopo aver suonato il campanello, ma non aveva risposto. Ero a disagio, ma alla fine me ne ero andata: forse aveva cambiato idea e aveva bisogno di un po’ di pace e tranquillità, una serata per se stessa. Mi evitò in seguito per alcuni giorni. Quando la rividi, il suo braccio era malamente ammaccato e un lato del suo viso era gonfio. Ho fatto finta di accettare la sua spiegazione – era inciampata e caduta giù per le scale – perché l’ultima cosa che volevo fare era che si allontanasse. Ma dopo, mi sono avvicinata a lei con piccoli passi. Era, in tanti modi, come la protagonista di ‘The Woman Who Walked Into Doors – salvo che questa donna, a differenza della Paula Spencer di Roddy Doyle – era una professionista, una donna in carriera che guadagnava molto: cose come l’abuso domestico non accadono nelle famiglie rispettabili della classe media. Queste cose accadono solo dove c’è povertà, mancanza di istruzione, ignoranza. Questa era la visione che ha prevalso per molto tempo, sicuramente in Irlanda – penso di averla respirata assieme all’aria da adolescente e mi ci sono voluti anni per liberarmene.

Con la mia amica vittima di violenza, una trentina di anni fa, ci sono voluti mesi prima che mi dicesse la verità: l’evitamento, la negazione e la vera e propria menzogna, erano infinitamente preferibili alla realtà: il marito l’aveva aggredita. Sarebbero passati anni prima che imparassi che la maggior parte delle donne sono vittime di violenza domestica più di trenta volta prima che “confessino” – e uso la parola a ragion veduta. “Confessare” è la parola giusta in questo caso: questo è il senso di vergogna fuori luogo che le donne sperimentano in simili situazioni. Vi è anche, inevitabilmente, la minaccia di un’ulteriore aggressione in una relazione intima che è già violenta. La ricerca mostra che il timore dell’aggressione è spesso più terrificante dell’aggressione in sè. Quando il colpo arriva, viene spesso descritto come “un sollievo”. Spesso, il partner violento è pentito dopo l’atto. Tale manipolazione incoraggia la donna a pensare che in fondo “lui non voleva” e a riconciliarsi con l’abusante; così l’intero ciclo ricomincia.

E anche se io ho reso in maniera narrativa questo spietato circolo vizioso in “Un terribile amore”, la verità è che il potere di chi abusa è tale che le donne spesso si assumono la responsabilità dell’aggressione. Come mi ha spiegato una psicoterapeuta: “le donne si assumono la responsabilità nella stessa misura in cui gli uomini attribuiscono le colpe”. Si tratta di una delle tristi verità psicologiche di questi rapporti violenti e tossici in cui il grido dell’aggressore chiede “perché me lo hai fatto fare”?.

Come se il peccato dell’aggressione appartenesse alle donne; come se la vergogna dovesse essere la loro, per non essere là dove avrebbero dovuto, per non aver obbedito a qualche tacita regola che non hanno scritto né compreso. La censura delle voci delle donne è un’arma potente, usata contro di loro con effetti devastanti. Consente all’intollerabile di prosperare.

Ho visto lo stupore sui volti degli uomini che mi sono vicini quando abbiamo conversazioni di questo tipo, conversazioni sui potenziali pericoli di cui tutte le donne sono consapevoli quando mettono piede fuori di casa. Uomini buoni, uomini gentili, uomini che sono figli devoti e amanti e mariti e padri e fratelli: la loro reazione a sentir parlare delle precauzioni che ogni donna prende in pubblico senza neanche pensarci è, per esempio, causa di stupore universale. L’espressione sui loro volti quando si parla di come le donne fanno in modo di lasciare le riunioni a tarda notte insieme, di pianificare i viaggi in taxi a due a due, di assicurarsi di avere le chiavi in mano quando si arriva di fronte a casa, di evitare certe strade, di mettere in guardia le nostre figlie su bevande drogate nei locali notturni e sul modo di vestire: improvvisamente, le differenze tra i mondi che uomini e donne abitano diventano spaventosamente visibili. È come se la potenziale violenza che è “là fuori” debba essere data per scontata: e che debbano essere le donne ad assumersi la piena responsabilità per evitarla – sia nella sfera domestica che nella la sfera pubblica.

Per quale altro motivo, per esempio, in un campus universitario negli Stati Uniti qualche anno fa, dove erano già stati commessi diversi stupri, si raccomandava alla studentesse di essere più vigili, di tornare ai propri dormitori prima che facesse buio, limitando così i loro movimenti notturni?

Perché il coprifuoco non viene imposto gli uomini?

Perché la responsabilità è passata dall’autore alla potenziale vittima? Perché? Proprio come l’altro continuum, anche questo è parte di un atteggiamento culturale: se una donna viene violentata, “se l’è cercata”. O è l’idea che quando una donna dice “no” al sesso, non ci crede veramente: vuole solo essere convinta, e il suo rifiuto non ha nessun valore. Può essere ignorato, sopraffatto e messo a tacere.

Questo atteggiamento culturale – parte del quale è “ dare la colpa alla vittima” – deve essere messo in discussione. Mi ha rincuorato di recente per vedere la risposta al secondo romanzo di una giovane scrittrice irlandese, intitolato Asking for It in cui viene affrontata l’intera questione del consenso sessuale. Il romanzo di Louise O’Neill inizia con un importantissimo dibattito sociale – quello che è ancora in corso. Ho già detto che vorrei tornare alla questione della narrativa e a quello che può fare per mettere in discussione gli atteggiamenti culturali prevalenti, e questo è un buon posto per cominciare.

Nel racconto provocatorio di Louise, Emma O’Donovan, l’eroina, è sgradevole, disonesta e sempre in cerca di attenzioni. Anche i suoi amici cominciano ad essere stanchi dei suoi modi. Dopo che Emma subisce uno stupro di gruppo in stato di ebbrezza e priva di sensi, il seguito dipinge un ritratto poco lusinghiero dell’Irlanda contemporanea, oltre che della morale e dei costumi moderni. Tutti i giovani uomini negano le loro responsabilità: la responsabilità appartiene sempre al sesso femminile. Gli uomini postano fotografie e video su Internet dopo l’aggressione, mentre allo stesso tempo sostengono la propria innocenza. Si tratta di una rappresentazione agghiacciante della società irlandese, delle regole che governano il comportamento dei giovani, e della diffusione della violenza sessuale, condonata dal vecchio mantra “sono solo ragazzi”.

Le forze della società Irlandese si schierano contro l’eroina, Emma O’Donovan, che ha infangato l’immagine della propria famiglia e della comunità. È il suo, gli atteggiamenti sociali decretano, il vero crimine. Lei e tutti coloro che le sono vicini vengono ostracizzati. La parte più importante di questa narrazione è racchiusa nel titolo Asking for It [chiederlo] – perché viviamo in una società dove è ancora lecito fare una simile domanda ? Perché un “no” è preso per un “sì”? Perché non rispondere è preso per un “sì” – l’assunto che il silenzio significhi assenso, quando fa comodo.

Questo è uno dei ruoli che la narrativa può assumere: fare queste domande, per costringerci a considerare le possibili risposte, e portare queste questioni alla luce.

Quando ho scritto il mio secondo romanzo, La moglie che dorme, stavo esplorando quella domanda che ho sollevato prima nella nostra discussione di oggi. Come è accettabile per un essere umano credere di avere il diritto di controllare la vita di un altro? Ho cominciato il romanzo per esaminare la questione dell’amore ossessivo. Ho accennato prima alla passione fisica che è una parte incantevole del linguaggio consensuale di amore tra un uomo e una donna – o tra una donna e una donna, o tra un uomo e un uomo, ma ci concentriamo oggi sulle disuguaglianze tra uomini e donne, sia nel pubblico che il mondo domestico – ma cosa succede se quel desiderio di possedere l’altro si trasforma nel desiderio di controllo totale? Perché l’omicidio è parte dello stesso continuum che inizia con la disuguaglianza e si conclude con l’abuso di potere finale: sei meno importante di me. Ho il diritto di controllarti. E, alla fine, ho il diritto di decidere se puoi vivere o morire. Quando il personaggio di Farrrell uccide la moglie – Grazia – l’atto violento è, nel suo modo distorto di pensare, un modo per farla sua per sempre.

È interessante per me pensare che ho potuto concepire quell’atto di possesso e controllo da parte di un personaggio nell’unico modo in cui poteva avere senso per me allora: per fa sì che Farrell uccidesse la moglie pur di non affrontare la paura di perderla, mi sono assicurata che il suo amore ossessivo sfumasse nella follia. Gli ho fornito un’infanzia di abusi, un padre violento, e una visione distorta della realtà. Vent’anni fa, era l’unico modo che avevo per concepire che un uomo potesse commettere un’azione così terribile.

(E a proposito – non voglio rovinare il finale chi non abbia ancora letto il mio ultimo romanzo, “Un terribile amore”: ma lasciatemi mettere in chiaro che non penso che le donne siano incapaci di commettere atti violenti, incluso l’omicidio. Ma non dirò altro per ora!)

Tuttavia, realtà e finzione, negli ultimi anni mi hanno insegnato molto di più di quanto avrei mai potuto desiderare di apprendere, in un mondo ideale, sul fenomeno culturale del femminicidio e dei “delitti d’onore”. Ho letto, per esempio, i lavori dello scrittore Nadeem Aslan – due romanzi meravigliosi dal titolo The Wasted Vigil and Maps for Lost Lovers. In quest’ultimo, Aslan esplora la vendetta ipocrita su una giovane donna celibe e sul suo amante, in una comunità pakistana della moderna Londra. Siccome lei non è sposata e vive “nel peccato” con il suo amante, i fratelli ritengono che abbia disonorato la famiglia e uccidono lei e il suo compagno, con il tacito sostegno di tutta la comunità.

E questo, per me, è uno degli aspetti più terrificanti di questo potente lavoro di narrazione. Forse non possiamo fermare chi è determinato a commettere crimini atroci, ma sicuramente è lì che la nostra nuova grammatica, il nostro nuovo linguaggio, devono cominciare: cercando il modo, le parole, i mezzi per alzare la voce contro questi crimini. Spesso ci vuole coraggio, un coraggio che a volte, forse, riteniamo di non avere, specialmente quando alzare la voce va contro le norme sociali accettate.

In Irlanda, come in Italia, e forse altrove, “la famiglia” è centrale per l’organizzazione della società. Nei paesi dove questa è la norma, parlare della violenza che si verifica all’interno di quel cosiddetto ‘spazio sacro’ si paga a caro prezzo. Come con la scrittrice irlandese Louise O’Neill, la cui giovane protagonista viene ostracizzata: qui l’atto stesso di ‘tradire’ i segreti della famiglia o della comunità diventa il crimine – al posto del crimine stesso.

Rebecca Solnit si chiede perché nessuno abbia dichiarato guerra alla pandemia di violenza contro le donne che si sta diffondendo in ogni società. Negli Stati Uniti, il numero di donne uccise dal partner nel giro di tre anni – il che vuol dire ogni tre anni – è più alto di tutte le vittime dell’11 Settembre. Ogni volta. Ogni tre anni, ancora e ancora e ancora. Solnit ricorda anche che “i partner sono anche la principale causa di morte per le donne incinte negli Stati Uniti”.

Guardando più lontano, lo stupro e l’omicidio di Jyoti Sigh su un autobus a Delhi ha motivato l’India, e il mondo intero, a protestare sulla condizione delle donne nella più grande democrazia del mondo. Ho lavorato un po’ per la Fondazione Maher in India alcuni anni fa, e ho visitato i rifugi delle donne e dei bambini a Pune. Fondato da una suora cattolica del Kerala, Suor Lucia Kurien, i rifugi rispondono ai bisogni di quelle donne abbandonate dai loro mariti e dalle famiglie dei mariti e che finiscono per essere isolate dai loro villaggi. Spesso bruciate, o aggredite con l’acido, o gettate nei pozzi, a queste donne respinte viene dato rifugio in uno dei tanti centri di Maher in tutta l’India.

Ho parlato con Suor Lucia a lungo. Abbiamo discusso la natura feudale della società indiana; abbiamo parlato del fatto che oltre il 90% dei cittadini indiani vivono nei villaggi rurali; abbiamo convenuto che l’istruzione è indispensabile se l’imperativo è modificare gli atteggiamenti sociali. Proprio ora, mentre siamo riunite qui oggi, a più di sessanta milioni di bambine in tutto il mondo viene negata l’istruzione di base, solo per il fatto che sono di sesso femminile.

Povertà. Una società feudale. L’ignoranza.

È chiaro che tali privazioni alimentino un atteggiamento violento nei confronti di coloro che sono percepiti come più deboli, o come membri meno preziosi della comunità, in una società tormentata da un antico sistema di caste che non ha posto nel nostro mondo. Ma ecco le parole di uno degli avvocati della difesa al processo contro gli assassini di Jyoti Singh, quando interrogato dalla regista di un documentario della BBC Television, intitolato India’s Daughter. AP Singh ha dichiarato: “Se mia figlia o mia sorella compissero atti prima del matrimonio, disonorandosi e perdendo la faccia e la reputazione nel farlo, vorrei sicuramente portare questo genere di figlia o di sorella al mio paese e, di fronte alla mia intera famiglia, versarle addosso della benzina e darle fuoco”.

Credo che sia giunto il momento di spostare il centro della nostra discussione. Femminicidio, abuso, violenza contro le donne: sappiamo tutte troppo bene le molteplici forme che può assumere. A volte, quando un problema è così travolgente, così fuori controllo, ci paralizza. Dobbiamo resistere a questa paralisi.

Ho parlato prima del ruolo che credo la narrativa possa svolgere per esaminare la complessità delle relazioni umane. Perché la narrativa fa i conti con la verità – non necessariamente con la realtà, ma con la verità: non vi è, dopo tutto, una differenza fondamentale tra realtà e verità. Credo che le opere d’arte ci aiutino ad accedere agli angoli bui della nostra psiche: ci aiutano a dire l’indicibile. Romanzi e film hanno un ruolo importante da svolgere per esplorare il tessuto della nostra vita quotidiana in un modo che ci aiuta a capire noi stessi e gli altri. Nel quadro più ampio, questo ruolo può essere piccolo – ma credo che sia significativo, e abbiamo bisogno di tutto l’aiuto che possiamo ottenere.

Recentemente ho visto un film fatto di nascosto in Iran da parte del regista Mohammad Rasoulof, che si intitola Manuscripts Don’t Burn. È un film coraggioso e stimolante su uno scrittore che cerca disperatamente di proteggere il manoscritto del suo romanzo, un romanzo che descrive la corruzione e la brutalità del regime politico iraniano. Il romanziere immaginario nasconde il suo lavoro dagli ufficiali sempre all’erta di quel regime che hanno avuto la responsabilità di proteggere. Grazie alla sceneggiatura del film, a suoi colori tenui, alla scrittura artistica e alla splendida direzione, sono uscita da quel cinema con una comprensione profonda della natura violenta della vita e della censura in Iran. Il film era alimentato da un sentimento di rabbia e di ingiustizia: si sentiva autentica, vera, viscerale, così come può fare la buona arte, molto più reale di un qualsiasi articolo di giornale e servizio televisivo.

Ma l’arte, naturalmente, è solo un modo di rispondere alla crisi attuale. Ed è una crisi – la violenza contro le donne è ovunque, quella nascosta e quella in prima pagina . Forse più noi donne diventiamo visibili, indipendenti, autonome – più grande diventa la minaccia che rappresentiamo per coloro che vorrebbero farci “stare al nostro posto”. Quel “posto”, è il posto di un essere umano inferiore, con meno diritti e meno possibilità di essere ascoltato. La violenza contro le donne non è solo una “questione delle donne” – si tratta di una questione di diritti umani ed è responsabilità di tutti noi affrontarlo.

Sfidare atteggiamenti culturali è un’impresa enorme – essenziale in Irlanda come in Italia come in India e Afghanistan. Nel mio paese, ho visto alcune campagne realmente efficaci sfidare con successo alcune delle vecchie idee, rigidamente radicate in diversi settori della società irlandese. Per esempio, nel maggio 2015, è passato il referendum sui matrimoni tra persone dello stesso sesso. La campagna a sostegno del “Sì” è stata molto efficace. È stata organizzata in maniera eccellente, un esempio potente di come le persone con agende politiche diverse possano sospendere i propri obiettivi personali più limitati e mettere da parte le rispettive differenze per lavorare con altri verso un obiettivo più grande. La campagna ha ottenuto il sostegno di membri brillanti e rispettati della comunità – personalità e opinion leader in vari campi – che hanno parlato col cuore dei loro figli e figlie, di fratelli e sorelle a cui è stata negata l’uguaglianza di fronte alla legge.

Il passaggio di questo recente referendum è stato, credo, come una ‘tempesta perfetta’: è stato il precipitato di atteggiamenti culturali che si stavano già spostando, abilmente indirizzato da chi ha organizzato la campagna. Sono state fatte assemblee e dibattiti, sono state rilasciate dichiarazioni da personalità appassionate, e il partito laburista, in particolare, ha sostenuto la campagna a livello nazionale. Ora abbiamo bisogno di una simile energia e impegno nei confronti dell’anomala legislazione sull’aborto irlandese – una mancanza normativa – già considerata in violazione della carta delle Nazioni Unite per i diritti umani. Questo può essere un altro argomento di discussione, ma è, tuttavia, parte del continuum che ho evidenziato qui questo pomeriggio: esistono ancora oggi tante disparità per quanto riguarda lo status delle donne e la vita delle donne.

Un’altra campagna di grande successo – non una convergenza di alleanze politiche in questo caso, ma una sfida culturale – è stata condotta di recente per affrontare lo stigma che si associa ancora alla malattia mentale e alla depressione. Qui, persone di alto profilo irlandesi, sportivi, personaggi televisivi, musicisti, si sono riuniti per parlare pubblicamente delle loro esperienze personali, offrendo al dibattito un’autenticità e una potenza a cui era difficile resistere. Gli atteggiamenti possono cambiare: gli atteggiamenti cambiano, e abbiamo bisogno di imparare qualcosa da queste mobilitazioni pubbliche, al fine di affrontare più efficacemente i problemi attorno alla violenza contro le donne.

Le arti, lo sport, l’opinione pubblica e i politici – hanno tutti un ruolo da nell’identificare, e poi contrastare, i molti modi in cui le “regole ombra” agiscono contro le donne e la loro sicurezza pubblica e privata.

(Per inciso, una recente controversia è sorta in Irlanda per quanto riguarda le nostre celebrazioni del centenario della rivolta del 1916. Di tutti gli spettacoli che il prossimo anno, nella celebrazione della nascita dello Stato irlandese, saranno messi in scena al nostro teatro nazionale, The Abbey, non uno è scritto da una donna. Anche nelle arti ….)

Le grandi mobilitazioni dell’opinione pubblica sono la migliore forma di “educazione”. Come insegnante, molti anni fa, mi frustrava la quantità di problemi che dovevano ricadere sotto la responsabilità delle scuole – e solo delle scuole. Erano generalmente problemi che la società si sentiva a disagio ad affrontare: l’educazione sessuale, per esempio, la responsabilità civile, la tutela dei bambini vulnerabili. Le scuole hanno un ruolo, naturalmente, così come le famiglie hanno un ruolo: nel discutere problemi, spiegarli, nel contrastare e rimproverare i comportamenti inappropriati. Ma se vogliamo riuscire a cambiare l’atteggiamento del pubblico nei confronti delle donne, per trasformare quella cecità di fronte agli abusi che conosciamo o che sospettiamo avvengano, allora l’educazione deve avere una definizione molto più ampia di ciò che accade all’interno degli edifici scolastici.

E per quanto riguarda la legge?

In inglese, abbiamo un proverbio che dice “la legge è asina”. A volte, le disposizioni giuridiche possono peggiorare una situazione già difficile. Abbiamo tutte visto, ne sono certa, quelle situazioni in cui un ordine restrittivo nei confronti di un partner violento finisce per rendere la donna in questione ancora più vulnerabile alle aggressioni. L’enfasi dei legislatori sembra spesso essere più sul punire un atto che ha già avuto luogo, che sul contribuire a elaborare strategie per evitare che tali abusi che si verifichino in primo luogo.

Abbiamo bisogno della ‘tempesta perfetta’ intorno al tema della violenza di genere: un cambiamento di atteggiamenti culturali, la fine del silenzio e della connivenza che spesso accompagnano il senso di diritto acquisito di un uomo di controllare la sua compagna, e una radicale rieducazione delle nostre comunità . Alla base di tutti questi cambiamenti necessari è il bisogno di affrontare le molte aree della disuguaglianza che ancora esistono per le donne di oggi.

Penso che tali cambiamenti siano possibili? Assolutamente.

Quarant’anni fa, le donne che lavorano in Irlanda per il Servizio Civile, o nelle banche, dovevano licenziarsi dopo il matrimonio.

Trent’anni fa, il divorzio era impensabile.

Dieci anni fa, il concetto di matrimonio omosessuale difficilmente sarebbe stato articolato.

Tra un paio d’anni, spero, sarò in grado di dirvi che la visione cattolica sull’aborto, dogmatica, radicata, e sostenuta dalle forze dello Stato, sarà anch’essa cambiata.

I cambiamenti culturali sono possibili. Ma bisogna lavorare molto su molti fronti, come abbiamo visto.

È indispensabile farlo, e che gli uomini e le donne lo facciano insieme, in ragione della nostra comune umanità.

La violenza contro le donne è, dopo tutto, una “guerra al terrore” che deve essere combattuta su ogni fronte: culturale, giuridico, filosofico, educativo, sul piano personale e politico.